giovedì 28 marzo 2024

Erika e Mirko con la kappa - racconto breve

 

Sono aggrappato al balcone e mi sto chiedendo: ma come ho fatto a mettermi in questa situazione?

Facciamo un passo indietro.

Questo pomeriggio ho incrociato l’Aldives, la parrucchiera (una fraresa doc) e abbiamo scambiato quattro chiacchiere.

Quando parla, mi fa sentire l’eco lontana delle generazioni, che si sono avvicendate su questa bella pianura affacciata sul Po. Si esprime, utilizzando un dialetto talmente stretto, che talvolta si fa fatica a comprenderla.

Una volta era sulla spiaggia di Lido degli Estensi insieme alla figlia, il genero, il nipote Thomas e il loro cane Dog. Erano distesi comodamente al sole e una tranquilla signora toscana, che occupava l’ombrellone vicino, insieme al figlio disabile, le si era timidamente rivolta, dicendo: <<Scusate, siete italiani?>>.

<<Mo zerto che sciamo italiani>>.

<<Ah bene, potreste far spostare un po’ il cane, poiché mio figlio ha paura>>.

Ovviamente la richiesta era stata subito accolta grazie a quella sensibilità tutta emiliana per le persone in difficoltà.

Quando l’Aldives lo racconta, non può fare a meno di sorridere: <<Mo pensa te, chissà da dove pensava venissimo, la signora...>>.

L’Aldives è da sempre una contradaiola.

Rione di San Paolo, per la precisione.

Il simbolo è l’aquila sulla ruota.

Mio padre Ultimo diceva che i contradaioli sono i ferraresi più veri. O meglio, lui sentenziava: <<Sei frares, se segui il palio e tifi Spal. T’al dig mi>>.

Ah, mio padre…

Ultimo Ansaloni. I miei nonni lo avevano chiamato Ultimo, poiché avevano deciso che tre figli fossero più che sufficienti e non ne avrebbero avuti altri. Ma i nostri vicini erano andati ben oltre: il loro ultimogenito lo avevano denominato Definitivo. Più chiaro di così!

Maggio, a Ferrara, è il mese del palio più antico del mondo. Quello di Siena ci fa un baffo, ma ancora pochi in Italia lo sanno. Risale ai festeggiamenti del 1259, ripetuti nel 1279 e divenuti palio straordinario nel 1471, quando Borso d’Este era ritornato da Roma, sfoggiando l’investitura ducale appena ricevuta dal papa Paolo II.

Bhe, dicevo, che a maggio siamo continuamente coinvolti in parate e processioni, cene e festeggiamenti fino ad arrivare alla gara vera e propria nell’ultima domenica del mese. A dire il vero, anche durante il resto dell’anno la passione vive nel cuore dei ferraresi e non è raro vedere giovani, che si allenano nei parchi anche nel freddo inverno, lanciandosi bandiere e provando figurazioni complesse. E ogni tanto senti chiarine e tamburi, che ripetono antichi ritmi e suoni. Fin da piccolo, quando papà Ultimo mi accompagnava in piazza per il Palio, rimanevo affascinato dai musici, che sfilavano con i loro strumenti scintillanti e i costumi variopinti. Il ritmo dei tamburi e lo squillare delle chiarine mi faceva bruciare di passione e sentivo fin dentro l’anima la forza e la fierezza di un popolo antico, che ribadisce così la sua identità.

Il palio si corre in piazza Ariostea per conquistare il prezioso drappo dedicato a S. Giorgio, patrono ad Frara. Mio padre mi metteva a cavalcioni sulle sue spalle in modo che potessi vedere bene tutte le gare. E io mi gonfiavo di gioia, poiché ero lì insieme a lui e a migliaia di ferraresi. E ognuno tifava per la sua contrada o rione. E quella sera sarebbero esplosi i festeggiamenti dei vincitori. Se fossimo stati noi a conquistare l’agognato trofeo, tutta la città avrebbe dovuto ammettere che quell’anno eravamo stati i migliori.

Ma ritorniamo a oggi.

Saluto l’Aldives e mi reco al bar di Denis.

E’ lì che pulisce – come al solito - i suoi bicchieri. Denis sostiene con decisione che un vero barista non si lascia mai trovare fermo. <<Mo che idea pensi che dia uno immobile. ‘Sarà mica un tipo serio quel li!’ , commenterebbero i clienti>>.

<<L’anno di uscita di “Ossessione” di Luchino Visconti?>>, gli faccio appena varco la soglia.

<<Ma questa è facile, Petronio. E’ il 1943>>.

Dovete sapere che Denis e io condividiamo una insana passione per il cinema.

Orgogliosamente ferrarese. Ma non solo.

Il nostro guru è Paolo Micalizzi, critico cinematografico e storico, che conosce tutto quello che riguarda la settima arte ferrarese.

Bene.

Ogni tanto ci sfidiamo in un duello cinefilo senza esclusione di colpi.

<<Gesù, perdonatemi, ma gliele pesto>>, riprendo senza indugio.

<<Ma è facile anche questo: si tratta del film in cui Don Camillo parla con il Crocifisso di Gesù, dopo che Peppone ha confessato di essersi comportato male>>.

<<Sì, ma: continua se sei capace>>, lo sfido di nuovo.

<<Neanche per sogno - risponde Gesù – Io l’ho perdonato e anche tu lo devi perdonare. In fondo è un brav’uomo>>, replica Denis.

A questo punto, le regole della sfida cambiano. Comincio anch’io a recitare le battute a memoria: <<Gesù non ti fidare dei rossi: quelli tirano a fregare>>, declamo.

Denis riprende: <<Gesù, se vi ho servito bene fatemi una grazia: lasciate almeno che gli sbatta quel candelotto sulla schiena. Cos’è una candela, Gesù mio?>>

Io ribatto deciso: <<No – risponde Gesù – le tue mani sono fatte per benedire, non per percuotere>>

A questo punto Denis ha un momento di smarrimento, uno sbandamento, ma poi recupera: <<‘Sta bene. Le mani sono fatte per benedire, ma i piedi no!’>>

Incalzo: <<Anche questo è vero – dice Gesù – però mi raccomando , don Camillo: una sola>>

Ora tocca ancora a Denis, che questa volta deve principalmente descrivere la scena del film: <<Don Camillo si avvicina a Peppone, che è in ginocchio e sta pregando. La pedata parte come un fulmine, Peppone incassa senza battere ciglio, poi si alza e sospira, sollevato: ‘E’ dieci minuti che l’aspettavo. Adesso mi sento meglio’>>

A me spetta l’affondo finale: <<’Anch’io’, esclama don Camillo. Intanto Gesù non dice niente, ma si vede che è contento anche lui>>

Sorridiamo di gusto entrambi, anche se la scena l’abbiamo goduta in televisione più volte, ma pure leggendo i libri del grandissimo Giovannino Guareschi, altro emiliano doc di Fontanelle di Roccabianca, in provincia di Parma.

Poi prendo il mio solito macchiato caldo in tazza.

Qualche chiacchiera sulle ultime gnus, notizie dal quartiere e veniamo interrotti da un evento inaspettato. Nel bar arriva la Erika (con la kappa), una ragazza fresca, vitale, acqua e sapone. E’ andata a convivere con Mirko (con la kappa, anche lui) da qualche anno. Mirko è un marcantonio alto come un armadio e con le mani grandi come badili, che ricordano quelle del nostro Don Camillo.

<<Ciao, Denis, una cioccolata in tazza grande>>, Erika ordina con lo sguardo fisso nel vuoto.

Denis e io ci guardiamo negli occhi, mentre armeggia con la macchina del caffè.

Erika meccanicamente afferra la tazza. Beve. Paga. Esce dal locale.

<<Mai vista in questo stato>>, sussurra Denis.

<<Hai notato il livido sull’arcata sopraccigliare sinistra?>>, rispondo.

<<Negli ultimi tempi è sempre triste e silenziosa>>

<<Ma era una ragazza solare...>>

<<Mirko non lo vedo più in giro: è tutto casa e lavoro>>

<<Mi sembra tutto molto strano...>>, commento preoccupato.

Denis ha ripreso a lucidare boccali. Io non riesco a non pensare alla dolce Erika triste.

Esco dal locale.

Passeggio un po’ per viale Cavour fino a quando mi ritrovo davanti alla traversa dove abita Erika.

Mi domando quanto i miei piedi talvolta siano autonomi rispetto alla mia volontà.

Oppure obbediscono proprio alla mia volontà profonda e sanno veramente ciò che desidero fare?!

Non finisco di formulare il pensiero che sono davanti alla pulsantiera del citofono del palazzo di Erika.

Che cosa faccio adesso?

Mentre ci penso, il dito è già partito ed Erika mi sta chiedendo: <<Chi è?>>.

<<Sono Petronio, Petronio Ansaloni. Hai dimenticato il resto e Denis mi ha chiesto di portartelo, dato che ero di strada...>>

Erika mi risponde che non le sembra di aver dimenticato nulla, mi apre il portone e io salgo al primo piano.

La trovo dietro la porta, che mi guarda da un sottile spiraglio lasciato aperto dalla catenella.

<<In realtà non hai dimenticato nulla – faccio io -, avevo solo bisogno di parlarti un attimo per una questione delicata>>

Erika si rabbuia – ancora di più, se possibile – e mi dice: <<Tra poco arriverà Mirko e non posso farti entrare. Sai è… è un po’ geloso. Ci vediamo da Denis nei prossimi giorni e ne parliamo>>

<<Ma è veramente urgente>>

<<Petronio, ti prego, non insistere. Meglio che ci salutiamo>>

Comincia a chiudere lentamente la porta, ma io sono deciso a non mollare e inserisco il piede.

Un dolore terribile!

Vedendo la mia azione, Erika ha reagito di scatto, tentando di chiudere la porta e il mio piede è diventato un hamburger tra due fettine di pane tostato, ma ben tostato. Senza ketchup, per fortuna: non si vede sangue. A meno che non sia dentro la scarpa.

A sentire il mio urlo (penso che anche Denis lo abbia avvertito a centinaia di metri di distanza…), Erika ha riaperto la porta e mi sta facendo accomodare in cucina, mentre continua a scusarsi.

<<Non ti preoccupare, il dolore sta già passando>>, affermo con la peggiore delle bugie.

Mi siedo sulla sedia e la fisso negli occhi. Ha uno sguardo dolce, ma perso non so dove. Gli occhi vagano in una fitta nebbia, che non si vedeva da un bel po’ di anni qui nella bassa.

Cerco le parole, ma come al solito parto senza controllo e sento anche io per la prima volta quello che dico, come accade a Erika in questo momento.

Parlo di una ragazza allega e felice che frequentava il bar di Denis e che da qualche tempo non vediamo più, mentre chi viene a prendere la cioccolata in tazza è una donna smunta e disperata, che pronuncia qualche parola come se stesse parlando con dei fantasmi nell’aldilà e poi subito ci lascia ed esce dal locale. E noi rimaniamo con la sofferenza di chi vorrebbe fare qualcosa, ma non sa che cosa.

Erika dolcemente ha allungato una mano e me l’ha messa sulla bocca. Non ha la forza di premerla forte, ma io ho smesso ugualmente di parlare.

Mi guarda con quei suoi occhi persi nel dolore e tace.

Anche io faccio lo stesso. Che cosa potrei fare, del resto?

Sento che dentro di lei si agitano sentimenti contrastanti e le dico: <<Sfogati, non tenere dentro>>

E lei, come un fiume che non attendeva altro che infrangersi con tutta la sua violenza sugli argini, tracima.

<<I primi mesi sono stati bellissimi. Ci messaggiavamo quasi ogni ora. Tante faccine e cuoricini… anche lui… mi portava spesso dei fiori, anche di campo, raccolti sul ciglio della strada. Solo per farmi una sorpresa, per vedermi sorridere e correre a prendere un vasetto con l’acqua per farli durare qualche ora in più>>.

Una pausa.

Nel suo sguardo sembra riaccendersi la vita e rivedo la Erika leggera e solare di sempre. Sorride, guardando nel vuoto e nei suoi occhi balenano i ricordi felici del passato.

Poi, di nuovo, si rabbuia.

<<Ma era il nostro rapporto che iniziava a non durare più come prima. All’inizio si trattò solo di qualche domanda pensierosa: “Perchè sei arrivata più tardi?”, “Come mai ti sei preparata tanto prima di uscire di casa?”. Io rispondevo serena, ma lui un po’ alla volta mi faceva capire che non era soddisfatto, che le mie risposte non erano sufficienti a tranquillizzarlo, a dissipare i suoi dubbi, a spegnere la sua gelosia>>

A questo punto si interrompe un’altra volta.

Fatica a riprendere il racconto. Quasi stenta anche a respirare.

Poi il fiume tracima di nuovo.

<<E’ stata una sera di qualche mese fa...non ricordo più quale. E’ tornato dal lavoro con lo sguardo spento e una espressione cupa in viso. Ah, quando ci penso, sento ancora tutto il dolore di quello schiaffo, il bruciore sul mio viso, mentre nel cuore bruciava tutta la mia vita e mi cadevano addosso tutti i miei sogni infranti. Aveva provato a telefonarmi per un’ora intera, ma io non ero raggiungibile. Inutilmente ho provato a spiegargli che il cellulare era scarico e l’avevo messo sotto carica spento, come consigliano di fare>>

Adesso piange.

Singhiozzi silenziosi ma le lacrime le bagnano tutto: scorrono sul viso e finiscono sulla gonna, mentre è piegata in due sulla sedia di fronte a me.

Io non so che cosa fare.

Le appoggio una mano sulla spalla.

I singhiozzi diventano un pianto rumoroso e violento, che arriva dal profondo dell’anima, dalla voragine di giorni di silenzio e solitudine.

<<Fai bene, sfogati>>, le dico accarezzandole dolcemente i capelli.

Poi il fiume si scatena di nuovo, nessuna barriera può contenere il dolore.

<<Dal quel giorno è stato un crescendo. Domande su domande, interrogatori, mille dubbi che io non riuscivo a fugare e dopo discussioni e scenate, ancora la violenza di uno schiaffo o di una spinta che mi faceva cascare per terra o sbattere contro un mobile o il tavolo di cucina>>

A questo punto, improvvisamente Erika si blocca. Diventa rigida come il ghiaccio. Mi fissa e dice: <<Adesso devi andare via. Mirko sta per rientrare e se ti trova qui...>>

Ma ormai è tardi.

Il rumore dei passi pesanti sulle scale annuncia che Mirko è già fuori dalla porta.

Mentre sento le chiavi agitarsi nella toppa, Erika ha già aperto la porta-finestra della cucina e mi sta spingendo sul balcone.

Non posso che lasciarmi portare dalla sua energia disperata e mi schiaccio sulla parete per non farmi scoprire.

I due discutono.

Non riesco a vederli, ma li sento.

Domande e ancora domande, insinuazioni ed Erika fugge in camera da letto. Sento sbattere la porta e immagino che si sia chiusa dentro.

Ecco che ne approfitto e mi sporgo fuori dalla ringhiera. Poi la supero e sono fuori con la pancia nel vuoto.

E adesso che cosa faccio?

Come il moribondo che rivede tutta la sua vita in pochi secondi, mi ricordo della maestra che scuoteva la testa poiché non riuscivo a eseguire semplici esercizi ginnici in cortile. Sento il prof di ginnastica delle medie che mi dice: <<Petronio, tu hai un futuro come raccattapalle, esci mo ben dal campo>> e mi manda a prendere l’asta per recuperare il pallone che ho spedito sui rami, l’unico incrocio di pali che mi riuscisse!

E adesso sono qui: posso mica restare appeso per tutta la notte…

E uno e due e tre: mi lancio nel vuoto e atterro in malo modo sull’asfalto. Mica male, ero solo al primo piano e non mi sono rotto niente. Forse solo l’amor proprio esce un poco ammaccato. Avrei dovuto avere il coraggio di affrontare Mirko e convincerlo che così non va proprio bene.

Mentre ritorno a casa, massaggiandomi il fondo schiena dolorante (ma dentro tutto fa male di più), ripenso al racconto di Erika, al suo violento pianto liberatorio e vorrei sentirmi anche io la coscienza un po’ più sgombra, ma niente!

Tutta la notte trascorre tra incubi e violenti risvegli.

Che cosa posso fare?

Quale dignità è questa: voltarsi da un’altra parte, aggiustando il cuscino e dimenticare che una persona, così vicina a me, soffre!

Mi ritornano in mente gli ignavi danteschi, di cui ci parlava il prof. Squerzanti, fissandoci negli occhi quasi uno a uno e minacciando: <<Mica vivere così! Mica chiudere gli occhi e spegnere la coscienza!>>.

La mattina scendo giù dal letto in fretta. Una colazione veloce e sono davanti al bar di Denis, che mi vede da lontano e intuisce qualcosa. Quando ci si conosce da tanto tempo, ci si intende subito.

Gli racconto.

Mi ascolta.

Quando ho finito, non aggiunge nulla.

Tira giù la saracinesca, scrive ‘Torno subito’ col pennarello sulla pagina sportiva della “Nuova Ferrara” e l’attacca con lo scotch.

Quando lo facciamo chiamare durante una pausa di lavoro, Mirko non riesce nemmeno a immaginare perché siamo lì.

E’ proprio grosso, pensiamo Denis e io.

E che mani grandi…

Ma poi, come al solito, comincio a parlare che neppure io so come.

E sarò stato convincente, perché Mirko non tenta neppure una volta di zittirmi.

Mi guarda, sì, come un cane rabbioso che stia per azzannare, ma poi rimane immobile.

Anche quando gli dico che la prossima volta che vediamo un segno, ma anche solo un’ombra sul viso di Erika, ha finito di stare tranquillo e si becca una denuncia per direttissima in caserma dai carabinieri, <<perché il maresciallo Esposito ci va a nozze con quelli come te>>.

Lo lasciamo impietrito e, senza aggiungere un fiato, imbocchiamo nuovamente la strada da cui siamo arrivati.

<<Pensi che ci stia ancora fissando?>>, mi fa Denis.

<<Non ne ho la benchè minima idea>>

<<Mo ti eri preparato il discorso?>>

<<Macchè, lo sai come son fatto?! La lingua parte e non so nemmeno io quello che dico>>

<<Ma gli avremo fatto paura?>>

<<Non so che cosa sia passato per la mente a lui, ma io ci mancava poco che mi inginocchiassi a chiedergli di non farci troppo male… con quei badili lì>>

<<Un quel da nient! Io ero troppo impietrito per muovermi, altrimenti sarei scappato via>>, commenta Denis.

Poi ci guardiamo negli occhi ed esplode una sonora risata.

<<E dire che questa volta non potremo neppure raccontarla, boia d’un mond ladar! E’ troppo importante e delicata la situazione>>.

Poi iniziamo a camminare abbracciati come quando uscivamo la domenica sulla mura a sedici anni.

<<Li stess di Bud Spencer e Terence Hill: guarda Mirko che se ci fai prudere le mani...>>

E dopo un’altra risata continuiamo a camminare in silenzio.

Ma dentro si sente che facciamo festa.

(Domenico Allocca)










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Ferrarah, ah, ah

Non aprite quella...finestra. Le ultime parole famose:《Che cosa vuoi che succeda, ho messo il lucchetto!》.