sabato 12 agosto 2023

Perchè la signora Ridolfi - racconto breve


Perchè la signora Ridolfi del secondo piano sta sempre nascosta dietro la tenda rossa del salottino e spia, allora io cerco di prenderla in castagna e le rivolgo un gentile “buongiorno”.

Lei finge di non aver sentito e, soprattutto, di essere invisibile, quindi, di non essere stata vista. Non risponde (come al solito).

Rimane per un poco immobile a fissare nel vuoto e poi si ritira. Dietro alla tenda rossa, per continuare a spiare.

Lei è contenta così e io mi sono preso la mia prima, piccola soddisfazione della mattina.

Un bel modo di cominciare la giornata, non c’è che dire...

Ma questa mattina no.

La signora Ridolfi era appostata, sì, come al solito, dietro alla sua tenda rossa.

E io stavo, sì, per prendermi la mia solita, piccola soddisfazione, ma… non mi sono distratto e sono andato a beccare il paletto del divieto di sosta, dove è legata la solita biga?!

Ho sbattuto la testa, procurandomi il bernoccolo, che adesso spunta bello e splendente, mentre prendo il solito caffè al bar e Denis, il barista, mi guarda con espressione interrogativa con una faccia più ebete del solito.

<<Mo pensa te, se si deve uscire la mattina con una faccia così...>>, dice inespressivo, mentre lava l’ennesimo bicchierino di plastica rigida.

<<Ma pensa te, se bisogna lavare i bicchierini di plastica invece di buttarli via!>>.

<<Mo tal dig, è un quel ecologico, solo un ignorante non lo capisce>>.

Allora interviene l’Aldives, la parrucchiera, che alza lo sguardo dalla “Nuova Ferrara”, mi osserva e sentenzia: <<In effetti non ha mica una bella zera, questa mattina>>.

Allora dovrei spiegarle che è tutta colpa della signora Ridolfi e della biga legata al paletto.

Ci penso.

Sto per iniziare a raccontarle l’accaduto e poi dico:<<Ha ragione, Aldives, dovrei stare più attento. Come stanno i suoi mici, stamattina?>>.

<<Mo bene, Barattolo non ha più il raffreddore e ha ripreso a mangiare i suoi croccantini preferiti>>.

Intanto Denis ha messo via i bicchierini di plastica e mi sta mescendo il solito caffè macchiato caldo in tazza di ceramica. Perchè lo sa che, se me lo versa in altro tipo di contenitore, glielo lascio lì senza fiatare.

<<Grande Denis: il caffè va servito in tazza, rigorosamente di ceramica, anche bianca, direi>>.

<<Sì, sì>>, bofonchia.

<<Sì, perché il caffè è una cosa seria. E anche l’occhio vuole la sua parte>>.

<<Sì, sì>>.

<<Eh sì. Un giorno lo dimostreranno anche gli scienziati di qualche sofisticato laboratorio americano: io lo sostengo ormai da anni. Gli altri materiali alterano il sapore, mentre la ceramica è rispettosa, sa stare al proprio posto. E’ avvolgente ma discreta>>.

<<Sì, sì>.

Decisamente Denis se l’è presa e non si interfaccia. Non coglie l’assist come fa di solito. Diversamente ne sarebbe nata una dotta discussione sulla qualità del caffè. Una arguta discettazione sulle virtù dell’Arabica. Un aulico confronto tra miscela brasiliana e tradizione napoletana.

Invece niente. Non replica.

Ma allora non c’è gusto. E anche il caffè, questa mattina, è meno gustoso.

Tutta colpa della signora Ridolfi, perché io lo so che non devo toccare Denis nel suo punto debole, ma questa mattina sono ancora un po’ rintronato. Ho il bernoccolo, che mi duole, e ho perso lucidità, commettendo un errore da pivello.

<<Mo deve stare ben attento, signor Petronio, che basta un attimo e...>>.

Mio Dio, è arrivata l’Emilia! O forse era già qui da un po’ e non me ne sono accorto.

Se avessi fiutato il pericolo, avrei avuto qualche possibilità di salvezza, qualche via di fuga:

1. imboccare velocemente la porta e uscire, fingendo di non averla vista;

2. attaccare una pezza a chiunque fosse a portata di mano;

3. simulare un malore e farmi ricoverare in pronto soccorso a Cona.

Ma adesso è tardi e non sono riuscito a mettere in pratica nessuna di queste strategie.

Le cose si mettono male e rischiano proprio di prendere una brutta piega.

Bisogna sapere che l’Emilia è uno dei più classici esempi di ipocondriaca ferrarese della più illustre schiatta. Se c’è una malattia, lei la conosce. Se mostri un qualsiasi sintomo, lei sa dirti di che cosa si tratta, come curarti e, in caso contrario, quanto tempo ti resta da vivere.

Ma il suo maggiore dominio è rappresentato dalla sottile, ampia e sofisticata discettazione su tutti i suoi mali e ognuno dei suoi sintomi. Quando parla delle sue patologie, non puoi fare a meno di chiederti se abbia trovato il tempo di studiare medicina e prendere anche qualche tipo di specializzazione. Mentre descrive in maniera puntuale e precisa i suoi mali, aggiungendone con profondo e pieno gusto, ogni tanto, qualcuno nuovo o semplicemente possibile, si lascia prendere dalla paura. Da sottile e fredda conoscitrice di ogni morbo, si trasforma in tenera e debole vittima delle sue discettazioni. Comincia a narrarti che preferisce acqua tiepida, anche d’estate, poiché è meno dannosa di quella da frigider. Sostiene che è più sano chiudere ogni spiffero, anche in pieno agosto, per evitare terribili correnti d’aria. Si deprime al primo colpo di tosse e dispera di poter ritornare ad ammirare il suo trasparente e lucido espettorato.

<<Buongiorno, signor Petronio>>, dopo avermi ormai afferrato, mi saluta con il solito tono mellifluo, che caratterizza ogni predatore che si rispetti.

<<Come si sente questa mattina?>>, ecco la fase due della strategia di caccia: mi chiede della mia salute con una gentilezza, che rasenta l’eccesso, come la migliore madre amorevole di questo mondo, per poi sferrare la zampata fulminante.

Non faccio neppure in tempo a bofonchiare qualcosa che aggiunge: <<Beato lei!>> (ma io non ho detto nulla!!!) <<perchè questa notte è stato proprio un brut quel: non riuscivo a dormire, ho cercato nel comodino la mia solita pillolina, perché quelle speciali le ho riposte nell’armadietto dei medicinali in cucina...o sono in quello del bagno?...non ricordo bene (non bisogna crederle, è esperta di ogni scaffale e ogni farmaco della sua collezione, si tratta solo di una posa per dissimulare, ma chi la conosce, non ci casca)...comunque sia. Le dicevo: ho buttato giù la prima compressa, ma niente. Di solito se ho qualche beneficio, si manifesta subito, poiché l’assimilazione è molto veloce… per questo è la mia pillolina preferita, ma questa volta – come le dicevo - niente! Allora ho iniziato a preoccuparmi. Mi sono detta: ‘Emilia, mantieni la calma, si tratterà della stessa situazione verificatasi martedì del mese scorso!’>>.

Ed eccola continuare con la sua calma e professionalità di ipocondriaca. Ormai ha acquisito un linguaggio medico molto raffinato e accurato, conosce la sintomatologia di decine (ma direi anche centinaia) di malattie e con dovizia di particolari scientifici riesce a discettare sulle minime caratteristiche delle differenti patologie con riferimenti sia alla fisiologia che, talvolta, persino all’anatomia umana. Nell’elencare i suoi mali ha un atteggiamento che combina il distacco e la freddezza del medico specialista (che illustra la patologia al paziente) con la preoccupazione e ansia dell’ammalata (che vede passare in rassegna l’elenco dei suoi acciacchi).

Ma ormai sono in trappola. Guardo a destra e poi a sinistra, cercando qualcuno che mi possa soccorrere (mi viene in mente don Abbondio, che si trova davanti i bravi di don Rodrigo e vorrebbe trovare una via di fuga; ah, il buon, vecchio Manzoni: quante ne sapeva, avrà avuto anche lui la sua Emilia?!). Ma tutti i presenti conoscono l’Emilia e si guardano bene dal finire nella sua zona di caccia.

Anzi.

Mi pare di leggere nel pensiero di tutti la soddisfazione: ‘Oggi è toccato a Petronio e io mi sono salvato!’

l’Emilia, intanto, mantenendo la sua freddezza chirurgica, continua a elencare mali e rimedi, lasciandosi andare anche a qualche piccolo artificio retorico: in alcuni momenti rallenta, fa una pausa per accrescere l’interesse e poi, prima che io possa interromperla per mettermi in salvo, riprende a effetto la sua disamina medico-scientifica.

Io annuisco. Pongo qualche domanda per non apparire scortese. Simulo un po’ di partecipazione emotiva.

Il solito copione.

Ma lei ormai è padrona del suo territorio di caccia e, come la belva assetata di sangue e ancora non paga, ogni tanto volge gli occhi intorno, per catturare qualche altra innocente preda.

Ma tutti sono ben attenti e non si fanno beccare. Guardano altrove o continuano a chiacchierare con i loro interlocutori, tutti solidali nel comune intento di evitare l’Emilia.

E, infatti, li sento, li sento tutti: ‘Oggi non ci facciamo beccare!’

Ma ecco che nel diluvio di parole, ce ne è una che mi colpisce. Allora disattivo il pilota automatico e la interrompo: <<Ha parlato di leucemia?>>.

L’Emilia si blocca. Mi guarda fisso negli occhi, incredula. Si gonfia di piacere e con malcelata concupiscenza, senza farselo ripetere, riprende: <<Il piccolo Mattia, il figlio della Erika Zanotti, è stato ricoverato a Cona e, dopo accurati esami, si è scoperto che è affetto dalla leucemia. Povero piccolo, adesso viene sottoposto alle cure mediche più avanzate, ma è un percorso lungo e doloroso>>.

La notizia mi lascia di stucco. Stento a credere a ciò che ho appena sentito. Il piccolo Mattia, quel bellissimo bimbo biondo tutto boccoli, che corre, sempre solare e felice, nelle strade della zona, quando si reca a scuola con il suo zainetto e la Erika fatica a tenerlo per mano. Mattia, che sorride sempre alla vita e adesso è lì che combatte contro la morte.

Il pensiero mi avvinghia con violenza il cuore, una mano invisibile mi ghermisce l’anima e la stretta è tanto forte che quella dell’Emilia, al confronto, è una carezza. E, infatti, mi libero di lei senza quasi accorgermene. Balbetto un <<Si è fatto tardi, devo andare. Buona giornata>> ed esco dal locale, condotto via dai miei pensieri.

In ufficio, svolgo meccanicamente le pratiche della mattina.

Non mi accorgo delle occhiatine maliziose di Adinolfi, che confabula con Briosi, forse criticando la mia improvvisa solerzia meccanica.

Non fisso la scollatura del nuovo abitino della Monica Bonazza, che è sempre più a corto di tessuto e sembra quasi infastidita dalla mia inspiegabile e improvvisa morigeratezza.

Non mi allontano neppure una volta dalla mia scrivania colma di carte, faldoni e pratiche arretrate.

Il mio unico pensiero è la caducità della vita.

Mi ritornano in mente le lezioni del professor Squarzanti sulla estrema fragilità della natura umana: oggi ci sentiamo forti come dèi e domani?! Domani un piccolo batterio o virus o altro ci condanna a voltare definitivamente pagina, chiudere il libro, spegnere la luce.

Il piccolo Mattia - la leucemia.

All’uscita dall’ufficio, dovrei ritornare a casa, ma non mi va di chiudermi nel mio guscio.

La caducità della vita oggi mi assilla.

E allora imbocco corso Ercole I d’Este e inizio a bighellonare.

Mi soffermo ad ammirare per l’ennesima volta la mole del Castello. Quante volte il mio sguardo ne ha indagato ogni minima pietra, sfumatura, crepa. La grandezza delle torri e la gentilezza delle balaustre, i getti d’acqua delle fontane del fossato e la flessibilità dei ponti levatoi, che non si elevano più. Anche tu, vecchio maniero, sperimenti la caducità. Prima: fortezza inespugnabile di marchesi e duchi estensi. Adesso: sofisticato gadget turistico, assaltato da gruppi di avidi visitatori in calzoncini e t-shirt.

Ma non voglio continuare a pensare alla caducità.

Mi lascio dietro alle spalle il maniero e percorro lo splendido viale, che ispirò anche Bassani, il quale volle posizionare il portone di ingresso del suo immaginario giardino su questo selciato.

Ah, i Finzi-Contini: da ricca famiglia ebrea a vittime delle persecuzioni razziali.

Accidenti! Ancora la caducità e la mutevolezza dell’esistenza umana.

Niente Finzi-Contini, pensiamo ad altro.

Sono ormai arrivato a ridosso delle mura.

Ecco il paradiso di atleti, podisti e bighe. Magliette multicolori, ciclisti e tute in tessuto tecnico foderano corpi muscolosi e torniti di sportivi instancabili. La joie de vivre dello spirito agonistico, l’armoniosa articolazione dei muscoli, la bellezza dei fisici atletici e sapientemente scolpiti mi ridonano il gusto della vita, il piacere di abbandonarsi al flusso vitale. Ammiro, ancora una volta (ma come ci si può abituare?!), la splendida variabilità cromatica dei mattoni in cotto delle mura difensive e della Porta degli Angeli.

Mi ritorna in mente la puntuale spiegazione di una madre che, conducendo per mano il suo bimbo, gli insegnava che <<esiste un colore specifico nella tavolozza ufficiale: si chiama ‘Rosso ferrarese’>>. E io, incredulo, ero andato subito a verificare col mio cellulare in wikipedia: “Il Rosso ferrarese è una pigmentazione calda, tonalità più scura del rosso cardinale; il nome fa riferimento a Ferrara dove, insieme al rosso mattone delle case, costituisce il colore dominante della città. E’ chiamato rosso ferrarese o rosso Ferrara per la sua origine, esso infatti è il colore adottato fin dal medioevo per le tende dell’omonima città e per questo il Comune di Ferrara lo ha reso l’unica tonalità concessa per i tendaggi del centro storico”.

Che bella scena: una graziosa madre insegna al figlio biondo, che l’ascolta sorridente. Un bel bimbo, come Mattia. Povero Mattia! Ed ecco che la caducità mi assale ancora una volta con quel suo odore pestifero da cimitero.

Bisogna mutare strategia, vado al bar.

Trovo Denis, che parla con l’avvocato Perelli della Spal. Non c’è nessun altro argomento che possa far infervorare di più il buon Denis. Le sorti del football club cittadino lo entusiasmano e fanno soffrire al contempo.

<<Avvocato, qui la situazione è sempre più grave: cambiamo allenatore, ma il gioco non migliora!>>.

<<Il problema è che la squadra non risponde, non riesce ad amalgamarsi. Appenza si avvia a trovare un suo assetto, si cambia...temo che dovremo ancora soffrire>>.

<<Purtroppo – mi inserisco io sulla fascia – abbiamo goduto troppo in questi anni con la promozione in serie A e adesso ci tocca calare.. è la caducità della vita (eccola, di nuovo! Adesso tormento anche loro!)>>.

Come se nessuno avesse parlato (evidentemente la mia affermazione era portatrice di sfiga oltre che un poco eccessiva), l’avvocato Perelli e Denis continuano a discettare su tattiche di gioco e sofisticati schemi calcistici, attinti dalle pagine sportive della “Nuova” e arricchiti da innumerevoli dotte disquisizioni, volgarmente dette ‘chiacchiere da bar’.

A questo punto, quasi senza pensarci, come se un moto dell’animo (improvviso ma profondo) mi facesse affiorare automaticamente le parole sulle labbra, dico: <<Denis, vorrei una bella spremuta d’arancia, ma dovresti servirmela in uno dei tuoi colorati bicchieri di plastica>>.

Il buon Denis interrompe le chiacchiere con l’avvocato e mi osserva, cercando di incenerirmi con lo sguardo (Caron dimonio dagli occhi di bragia, avrebbe commentato il Sommo Poeta), ma subito mi affretto ad aggiungere: <<Carissimo, mica voglio prenderti in giro>>.

<<Sarà mei>>, fa lui.

<< E’ che i tuoi ragionamenti forse cominciano a convincermi un po’>>.

Denis si illumina e con la velocità del barista consumato mi accontenta. <<A tal dig mi: l’ecologia è un quel serio, brisa quel da ridar! Questa te la offro io, Petronio!>>.

Entrambi ci scambiamo un’occhiata complice e sorridiamo di gusto.

Sorseggio la mia aranciata ecologica.

Continuo ad ascoltare con piacere le arringhe calcistiche dei due esperti, inserendomi qualche volta dal basso della mia cultura sportiva.

Infine li saluto, aggiungendo un <<Forza Spal>>, a cui fa eco prontamente l’<<Este viva>> di Denis.

Devo ammettere che mi sento meglio.

La morsa del dispiacere per il povero Mattia si è allentata un bel po’.

Rifletto: la caducità della vita è una fatto, che non si può cambiare, ma si può tentare di migliorarla un po’ questa esistenza. Si può cercare di andare maggiormente d’accordo con i nostri simili. Trovare occasioni, anche semplici, per scambiare quattro chiacchiere, sorridere in compagnia, fare una piccola gentilezza a una persona cara.

Sull’onda dei pensieri, senza rendermene ben conto, sono giunto sulla soglia del mio condominio.

Penso alla signora Ridolfi, sola e appostata dietro la tenda rosso ferrarese.

Mi starà certamente fissando… nell’ombra.

Ancora un moto dell’animo e, senza che me ne renda ben conto, mi trovo davanti alla porta del suo appartamento. L’indice sul pulsante sotto la targhetta in ottone “Nives Ridolfi – Wainer Mazzoni”.

Un rumore di porta, che scricchiola, fa eco al suono del campanello.

Passi lenti.

Immagino l’occhio dietro lo spioncino.

La porta si apre sull’espressione incredula della Ridolfi.

<<Signora Nives, buonasera. Sto rientrando da una passeggiata e ho voluto bussare per chiederle come va e se ha bisogno di qualcosa>>.

La Nives mi fissa, ancora più incredula, ma poi lentamente comincia a dirmi di non avere bisogno di nulla. Mi ringrazia per la cortesia. Mi racconta un po’ della sua micia, che ha avuto una leggera indisposizione, forse per la nuova marca di croccantini (<<L’Aldives me lo ripete sempre: brisa cambiar i croccantini. La gatta si abitua e poi: chissà cosa ci mettono dentro! Se invece è sperimentata...>>).

E via andare con questo tenore per una decina di minuti.

Infine, il cortese commiato, ancora un ringraziamento e la Nives, che conclude: <<Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a chiamarmi!>>.

Ma non era il contrario?! Non sono stato io a interessarmi delle sue necessità?!

Non ci voglio pensare. Sono troppo fiero di me. Ho fatto una buona azione, ho dato un piccolo contributo alla lotta contro questa esistenza caduca e talvolta triste.

Mentre salgo le scale con una certa leggerezza d’animo, però, avverto una piccola ma decisa certezza farsi avanti. Sono sicuro: domattina la signora Ridolfi sarà di nuovo dietro la tenda rossa del salottino a fissarmi e non risponderà al saluto...

(Domenico Allocca)

2 commenti:

  1. Un racconto di un attimo di vita. Piacevolissimo. Scrittura veloce e precisa che non ti lascia. Mi è piaciuto molto. Complimenti Domenico.

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